Rip Annabelle. Rip.

Le parole fanno male. I ricordi ancora di più. Il silenzio che ve lo dico a fare. In ogni modo non ne esco. E forse non ne uscirò mai. E’ rimasta una cicatrice, profonda e indelebile altezza cuore. Ricordare i giorni che sono stati non è affatto di aiuto. Il silenzio infinito, ed io non ho proprio più parole. E si ritorna lì, alle parole, che come lame appuntite trafiggono e non mi danno scampo.

Ero indeciso oggi sul da farsi. Il mio cuore vira verso nord, ma il corpo è fermo, esanime qui, a Roma. Dove tutto è iniziato e tutto, inevitabilmente è finito. Purtroppo niente è di conforto, e se oramai non piango più perché gli occhi sono spenti, non ho neanche più parole per raccontarmi. Sono sempre le stesse, in circolo, che si ripetono e si rincorrono senza suscitare interesse in nessuno di quelli che erano soliti leggermi, e soprattutto, senza aiutarmi più.

Forse la migliore cosa è sparire, per un po’. Lasciare quanto scritto a chi vorrà ancora leggerlo, rimanere in disparte ed occuparmi di qualcos’altro. A ricercare il sorriso che ho perso per sempre. E nessuno che se ne interessi. Nessuno che muova un dito per me. Perché quando ci sono io a non avere le forze di andare avanti, a perdere la speranza, a non riuscire a trovare più le motivazioni è noto che tutti si fanno indietro e pensano a cose più importanti. Non proprio tutti, per fortuna.

E due domande me le devo porre per forza. Non avrei mai voluto, ma probabilmente Annabelle è morta. Non oggi, ma esattamente tre mesi fa. Non è un caso però che oggi lo ammetto. Ci sono giorni in cui vorrei andare oltre e riprendermi, ma appena mi distraggo un po’ e sento di stare meglio mi ritorna tutto indietro più vivo e forte di prima. Mi ritorna in mente che non posso più condividere il mio sorriso con chi più di caro ho avuto. Perché non vuole.

E ne pago costantemente le conseguenze. Sono giorni che cerco le parole per questo post, poi sono arrivate in pochi secondi di getto, come accade sempre quando devo scrivere qualcosa. Le parole arrivano  ed escono da sole, senza controllo. Non c’è più speranza, ne serenità. E’ tutto nero e il dolore si affievolisce per poi ripalesarsi di nuovo più forte di prima.

Ho imparato sempre a mie spese, oggi più che mai. Una lezione che non dimenticherò mai, è che quando le cose non sono destinate ad essere non vale la pena neanche più provarci. Abbozzare, parlarne, chiarirsi. Tutto inutile. A niente è servito fidarsi. A niente è servito compiere errori. Non è servito niente di niente, fino al punto che ho lasciato perdere. C’è chi mi dice di prendere un treno e andare a trovarlo per parlargli ancora.

Non lo farò. Non tanto perché non ne sono capace. Sono certo però che non sarei capace a gestire le conseguenze, e sicuramente il mio gesto verrebbe visto in maniera sbagliata. Mi affido al destino, che quando ha voluto ci ha fatti incontrare. Ma non ci spero più di tanto. In fondo se non hanno voluto capirmi quelli che mi conoscono da anni, perché dovrebbe capirmi lui, che tutto sommato non ha neanche tutti i torti.

Nei prossimi giorni disattiverò anche i social. E’ assurdo come le cose possano cambiare. E’ bastato un anno a scombussolare tutto di me, e a non lasciare più niente di ciò che ero. Le cose cambiano, ed io sono cambiato. Annabelle è morta, Fabrizio annaspa.

wtf

Spero possiate capire. Per quanto ci sia ancora da capire. Prima o poi tornerò…

NB La canzone è di Levante, e potete sempre scaricare Abbi Cura di Te cliccando qui. ❤

L’appuntamento perfetto… Finchè

– Toc toc
– Chi è?
-E’ l’inenarrabile voglia di cazzo. Che dobbiamo fare? Sono cinque mesi che non fai sesso!!!
-Lo so! Che dovrei fare?
-Esci. Vedi gente. Scopa

Potrebbe bastare questo a riassumere tutto. Si perché quando ti calpestano il cuore è difficile riprendere determinate routine. Avvicinarsi, toccare, baciare qualcun’altro. Gesti semplici che nella mia testa non avevano più una vera e propria realizzazione. Mi chiedevo ripetutamente, “ma come si fa?”. Come mio nipote, che ha scoperto da poco le mani, e ancora non ha visto i piedi, arriva a toccarsi fino al ginocchio, io dovevo riscoprire quei movimenti.

Non avevo affatto voglia. Il solo pensiero mi faceva rabbrividire. Così, dopo quasi tre mesi passati chiuso in casa sul letto a piangere e ad abbuffarmi della qualunque, ho deciso di dare una possibilità all’unico che mi sembrava valido. Il collega. Che per inciso vuol dire stessa età, stesso lavoro, stessa ironia ma di Roma. Una sorta di garanzia, visto che fino a quel momento ero inciampato sempre nelle persone più sbagliate sulla piazza. Dettaglio strettamente necessario: single!

Mi sono dovuto forzare e non poco a decidere, per questo, un sabato sera senza niente di meglio da fare ci siamo dati appuntamento all’Altare della Patria verso le 21:30. Un appuntamento senza doppi fini. In realtà alle 17 ho iniziato a realizzare il fatto che dovevo andarci per davvero. Ed ecco, non mi andava. Mi sono dovuto forzare, mettendo tutto sul piano “se non ci vai sei una sfigata orrenda”. Alle 19 ero già pronto. Con l’ansia che mi si mangiava.

Sono uscito. A piedi. Da Montesacro in centro. Nel tragitto ho pensato ad una marea di dettagli devastanti: stavo facendo il primo passo per uscire da quella maledetta storia? Stavo facendo qualcosa per me? Oppure stavo facendo qualcosa che gli altri si aspettassero facessi? Non  lo capivo. Me lo ripetevo in testa, ma non sapevo gestire le risposte. Sono arrivato alle 21. Ed ho passeggiato ancora un po’. Stavo per ripensarci, poi  IlCollega mi scrive: “Sto cercando parcheggio. Ottima scelta il centro, vero?”.

Ecco. Non potevo scappare più. Stava arrivando. Prima che potessi realizzare il da farsi me lo trovo davanti. Eccolo. Di fronte a me. Carino, molto carino. Belle mani. Unghie corte. Curate, e pulite. Bel culo. Porta un golfino di lana, nonostante l’umidità di fine marzo. Io sorrido. E mi lascio guidare. Il primo impatto è positivo. Iniziamo a passeggiare e a parlare. Di lavoro, di storie passate, di quello che si vorrebbe e di quello che non si ha.

Lui è molto misurato. Non si espone. Ma vedo che mi osserva. E’ simpatico però, mi mette a mio agio. Rimaniamo in una sorta di confort-zone, senza andare oltre, utile ad entrambi forse. Si ride, si gioca, ma tutto sul vago e sull’innocuo. Ci fermiamo in un wine bar a bere qualcosa. Io parlo dei gay, di Roma, di quanto mi sia stufato di correre dietro alle persone. Lui mi chiede di non dire gay ad alta voce.

I suoi non lo sanno. Di lui sa solo un suo caro amico. Ecco, c’era qualcosa che non andava. “Per piacere non usare certe parole. La gente ci guarda”. Bene. Voglio comprendere, in fondo non siamo tutti uguali. Beviamo, ridiamo. Parliamo di sesso. E’ lui a chiedermi che gusti ho. Cosa mi piace. Io rispondo in maniera molto dettagliata. In fondo siamo qui per giocare. Gioco. Lui ride. Mi dice i suoi gusti e quello che lo eccita. “Usciamo di qui. Devo fumare!” e mi schiaccia il piede per accelerare il tutto.

Mentre gli accendo la sigaretta guarda le mie mani. “Finalmente una persona con le mani a posto. Unghia corte. Pulite. Belle mani, mi piacciono”. Sorrido. Si vede che siamo infermieri. Ho pensato la stessa cosa, e mi piace pensare che sia un dettaglio positivo. Continuiamo a passeggiare, siamo più rilassati entrambi. L’alcool aiuta, sempre. Ci buttiamo sui Fori Imperiali, e finiamo davanti la Chiesa dei Santi Luca e Martina.

E’ bastato poco e ci siamo avvicinati. IlCollega sa il fatto suo, e bacia anche da Dio. Mi stringe. Mi tocca. Cerca i miei occhi. Io mi sento finalmente i polmoni pieni d’aria. Stiamo lì una mezz’ora buona, ci fermiamo solo quando arriva gente. Ci guardiamo intensamente, e lui, sorride. Sembra felice. “Sei bellissimo” mi dice a bassa voce. Esattamente quello di cui avevo bisogno. “Qual’è la casa più vicina, la mia o la tua?” mi chiede.

La mia. La mia è sempre la casa più vicina. Andiamo a prendere la sua macchina e ci andiamo. Quello che ne segue sono un paio d’ore di assoluto piacere. Lui mi dice delle cose che mi hanno sconvolto. Io non mi sbilancio. Se ho imparato qualcosa dal passato è meglio lasciare qualcosa all’immaginazione. Stiamo benissimo, non bene. Facciamo qualsiasi cosa e la facciamo guardandoci sempre dritto negli occhi. Mi risento i piedi a terra. Risento il battito del mio cuore. Sono felice.

Nelle due settimane successive…

Il mantra è stato NON PENSARCI, NON ESAGERARE, STAI SERENO. Mi sono mantenuto per tutta la settimana. Non ho esagerato con i messaggi. Non ho esagerato nell’esprimermi troppo. La Burina, la mia coinquilina, ha continuato a ripetermi di stare tranquillo e di farmi cercare. Lui mi ha cercato, ma qualcosa non mi tornava. Dovevamo vederci il martedì, ma non poteva. Facciamo venerdì, ha una cena. Aggiorniamoci. Vediamoci lunedì. Devo stare con i miei. Vediamoci mercoledì. Non posso, impegni con il lavoro. Domenica? Fuori per il weekend.

Ho aspettato il lunedì successivo per parlare. “Mi dici che problema c’è. Io sono stato benissimo. Ma ho l’impressione che non mi vuoi vedere. Che succede?” gli scrivo. “Scusami, hai ragione. Ma da venerdì mi vedo con un altro. Una cosa che non avevo previsto. E’ sbucato fuori dal nulla, non lo sentivo da mesi. Non ho premeditato niente, è solo successo e basta” mi scrive. Neanche mi telefona.

quote

Ecco. Mi spiegate quello che vuol dire? Niente, vero? Sono stato anche io questa volta? Non lo so. So solo, che non vale neanche la pena rammaricarcisi troppo. In fondo basta avere una buona giustificazione. Ed io dovrei ricominciare da zero? Come se tutto quello che è successo fino ad oggi non mi avesse minimamente cambiato. Come se tutte le cose che ho dovuto sopportare e digerire non mi avessero minimamente toccato.

Ovviamente non mi sono innamorato. Ma avrei potuto. Ma allora che ci sei venuto a fare? Che me le hai dette a fare. C’ero solo io che lo posso testimoniare. E Roma. Ma forse anche Roma direbbe che non è stato niente, e si farebbe una risata.

Si. Per non piange. PIENA. Ancora. Ah, dimenticavo. Ildrammaèsempredietrol’angolo. Sempre.

Pensieri che si rincorrono inutilmente.

La sindrome dell’arto fantasma è la sensazione anomala di persistenza di un arto dopo la sua amputazione o dopo che questo sia diventato insensibile: il soggetto affetto da questa patologia ne avverte la posizione, accusa sensazioni moleste e spesso dolorose, talora addirittura di movimenti come se questo fosse ancora presente. Questa sensazione, assolutamente normale e che non rientra in nessun tipo di problema psichico, è la dimostrazione più evidente dell’esistenza dello schema corporeo, che persiste, nonostante dall’arto amputato non giungano impulsi nervosi ai centri corticali.

Banalmente, la spiegazione di questa patologia, così come la espone Wikipedia descrive esattamente come mi sento. Con la solo differenza che la parte amputata è il mio cuore. Un aspetto davvero importante, perché il cuore, che io lo voglia oppure no, è ciò che ci fa rimanere vivi. Io descriverei me stesso in questo momento come vivo per inerzia. Continuo la mia vita, vado avanti ma senza un minimo obiettivo. Su niente.

Lo Zero che ritorna. E se il cuore mi è stato portato via, naturalmente, così come da sintomi io sento comunque tutti i dolori della conseguente asportazione. Ogni minimo crepitio lo avverto. Ovviamente le colpe ormai è assodato, sono tutte le mie. Sono stato sottoposto al giudizio di qualcuno che non so, sono stato condannato e sfanculato. Senza appello. Sapete per coscienza e anche per formazione, sono portato a non arrendermi mia.

Sono portato a pensare che anche se le cose cambiano si può fare sempre qualcosa per rimediare. C’è sempre un’alternativa per sistemare tutto. Ma ho capito che ci deve essere anche la volontà altrui. E a me la possibilità di rimediare, storicamente, non viene mai data. Adesso non voglio lamentarmi a prescindere o attaccare le pippe as usual.

No. Una cosa mi chiedo ripetutamente allo sfinimento: cosa avrei potuto fare di diverso? Ecco, adesso, col senno di poi mi vengono in mente tremilasettecentocinquantasette alternative. Adesso, che non posso più parlare ne fare più niente, saprei esattamente come comportarmi per far stare tutti bene.

Ma quanto sarebbe giusto? Quanto in questa storia a parte quello che ho fatto e pensato io, ci sia stato qualcun’altro che sia stato disposto a fare qualsiasi cosa per me? Esatto. Non c’era. E non c’è. Forse è da qui che dovrei ripartire. E’ da qui che dovrei cancellare tutto e andare oltre. Si, oltre. Perché andare avanti non se ne parla.

Per andare avanti si deve andare in due. E non è questo il caso. Andare oltre ha un’altro significato. Andare oltre vuol dire continuare a vivere come se non fosse successo niente. Come se le parole non fossero mai state dette.  Ecco, abbiamo scherzato! Ma io lo so benissimo che non è così. E soprattutto non ci riesco. Anzi, la cosa che mi più fastidio è che tutto ingiusto.

funeral

Non ho replica. Non posso dire né fare nulla. Niente di niente. Hanno già fatto il funerale al morto e a me non mi ci hanno voluto. E’ così e basta. Poco importa il resto. Gli urli, le lacrime e il dolore che ci siam fatti. Non si considera più niente. Niente che mi riguardi… Forse è questo quello che più importa in tutta questa faccenda. Quando c’era bisogno di fare un piccolo passo avanti nessuno, neanche io, ha avuto il coraggio di farlo.

Siamo andati dritti allo schifio. Alla genesi del dolore. Ognuno ha sparato le sue cartucce perdendo di vista chi eravamo l’uno per l’altro e perchè soprattutto. Suscettibili alla sofferenza più grande. Quella del cuore. Nessuno ha voluto prendersi cura di niente in maniera costruttiva.

Faccio un sogno ricorrente da due settimane. Torno dal lavoro e ti trovo sotto casa ad aspettarmi, ti vedo che mi segui con lo sguardo al supermercato e anche dentro l’ufficio postale. Sento i tuoi pensieri, e non mi dici niente. E paradossalmente forse è proprio così. Con la sola differenza che posso solo immaginare tutto. Forse hai sempre avuto ragione tu, sono pazzo. Pazzo e ossessionato.

Io resto con il mio, e tu resterà col tuo. Un’alternativa c’è. C’è sempre. Ma forse è ancora invisibile, o forse non la si vuole vedere. Io adesso, non ce la faccio neanche più  a parlare. Ce l’ho con me, perché ho sbagliato, e pago profumatamente. Guardo i giorni che scappano e i pensieri che si rincorrono alla ricerca di sollievo.

Che, non arriva, mai.

Cuore rotto e sanguinante.

Sapete com’è. Io ogni San Valentino muoio un po’. Adesso, non pensiate che sia il solito post disfattista sul significato di San Valentino festa. Nossignore. In realtà io non lo odio San Valentino. Anzi. Se solo potessi festeggiarlo come si deve ne sarei anche felice. In realtà il rapporto conflittuale che da anni mi fa storcere il naso è puramente collegato alla mia singletudine, ed hai drammi che in questo giorno, inevitabilmente si susseguono. Proprio oggi ovviamente, ne ho combinata una delle mie. Epiche.

Non entrerò nel merito, ovviamente, mi vergogno come un ladro. In realtà ho semplicemente fatto qualcosa di brutto a chi non se lo meritava. Quando mi comporto così, in realtà riesco a dare solo il peggio di me. E adesso quel minimo che c’era è sparito. In un secondo. E’ bastato un tap su qualche app ed io sono volato via nell’etere. Per sempre. Ecco, le ragioni che mi hanno spinto a comportarmi di merda sono molto. Sono mesi che cerco di capire che tipo di relazione fosse diventata quella che era iniziata l’anno scorso. Probabilmente non era niente più.

Anzi. Mi ostinavo io a cercare delle motivazioni ad andare avanti. Non c’erano già più. Il problema è che al cuore, mio, non si comanda. E quando mi sento messo da parte, per senza motivo, divento dispettoso e antipatico. Non mi sono smentito. Ora è un po’ difficile piangere sul latte versato. Ma io, per quel che posso dire, penso a me. Penso a me che mi sono pianto la qualsivoglia per mesi, e non ho avuto un minimo.

Penso alle notti che oramai passo insonne dalle 4 in poi. E penso a quanto sono stato coglione ad affidare il mio cuore, una cosa delicata e molto importante, a chi in realtà di questo cuore non ne ha tenuto minimamente cura. Zero. Ora non voglio finire con i miei soliti piagnistei del cazzo. Mi odio molto e vorrei riparare in qualche modo a questa situazione. Ma le opzioni non ci sono. Non le vedo e forse non ne voglio anche. Ecco, qui mi voglio fermare e aprire una riflessione.

bleeding-heartE’ stato giusto? E’ valsa la pena? E’ stato importante? Per la risposta è sempre si. Io quando sbaglio lo faccio alla grande. Finisco nella merda con tutti i piedi. Divento rissoso e appendo il muso a chiunque non tenta di capirmi. E sbaglio ancora di più. Sono arrivato a svenire e a farmi venire gli attacchi di panico, e credetemi, a caro prezzo nel giro di cinque minuti ho pagato tutto. Adesso, col senno di poi, se tornassi indietro rifarei tutto in maniera diversa.

Adesso, ho coscienza del fatto che chi ti ama non scappa via, e non si nega. Anzi. Chi ti ama ti capisce, e se non ti capisce ti da almeno la possibilità di spiegarti. Probabilmente io ho amato, e quando ami fai pure le cazzate, invece per lui ero uno dei suoi tanti flirt per sfuggire alla monotonia di una routine o della noia che inevitabilmente colpisce una coppia, o che so io. O più semplicemente un gioco, di cui io, neanche a dirlo ne pago tutte le conseguenze.

Capite bene, che trovando la sua fine nel giorno di San Valentino non posso non farne un dramma. Non posso che non chiudermi in casa e prendere a testate tutti i muri. Non posso che non deprimermi e chiudermi definitivamente finché, mi auguro, inciamperò in qualche altro ragazzo carino. Mi viene solo da non capire come due persone, come me e te, che si, in qualche modo si vogliono bene, siano arrivati a farsi tanto male. Per questo mi dispiace.

E proprio perché è San Valentino, ho letto diversi post su facebook oggi che mi hanno un po’ infastidito contro i single che odiano questa festa. Non odiamo questa festa. Niente affatto. Non la malediciamo a prescindere. Non odiamo chi ama. Siamo soli però. E se per alcuni essere single è sintomo di libertà, di scegliere con chi andare e non, di essere liberi di vivere una notte come si vuole, bé ecco, ci tengo a sottolineare che dopo che ne fai di ben donde ti accontenteresti anche di un tuo di Baci, magari nella versione con le frasi di Tiziano Ferro. E una pizza, solo con chi ami.

Perché poi questo è quello che conta. I single non diventano acidi a causa di una festa. No. Siamo solo un po’ tristi. E dividiamo con altri amici, single anche loro, la voglia di condividere qualcosa. Che sia giusto o sbagliato io non lo so. Purtroppo è così. E oggi altro che festa. Sanguino direttamente del cuore. Che si è rotto un’altra volta. E ora tocca andare a ritrovare i pezzi. E, inevitabilmente, ricomincia quel gioco spietato che io, davvero, non vorrei mai più.

Einvece.

Con la testa fra le nuvole.

nuvole

Nell’ultimo periodo ho volato tantissimo. Ergo tanto tempo per pensare. Forse troppo. Ecco, non mi voglio affatto dilungare con risvolti depressivo-maniacali-convulsivi su chi ha deciso di girarmi le spalle. In fondo non se lo merita neanche più. In realtà quando avevo deciso di chiudere il blog, lo avevo deciso per davvero. Non volevo più tornare su queste pagine a scrivere. Più che altro perché scrivere vuol dire rivivere di nuovo una determinata situazione e quindi soffrire. Ancora. E ancora.

Detto ciò, ero lì che me la volavo e affidavo me stesso solo allo scheduling dettagliato degli aerei che avrei dovuto prendere nelle successive ventiquattro ore, e nient’altro. Non avevo altra certezza. Dovevo solo portare il mio culo in Australia, con un viaggio che partiva da Roma e faceva prima tappa a Londra. Per un notte, per riposarmi, per ripartire l’indomani.  Arrivo a Londra in una serata freddissima, e prendo direttamente un autobus che mi lascia in albergo a cinque minuti da Heathrow.

Arrivato in camera avevo solo una gran fame. Non mi sono preoccupato della valigia, l’ho lasciata li in mezzo alla stanza, e me ne sono andato nella lobby dell’albergo per mangiare qualcosa. Un albergo a cinque stelle costatomi pochissimo con un ristorante di merda. Niente di invitante, la cosa più interessante è stata la mia scelta finale, ovvero un sandwich orrendo. Di li a poco però mi sarei fatto catturare dal solito specchietto delle allodole per i gay. Grindr.

Si perché mi sono accorto di essere già sotto wi-fi, e ci ho messo tre secondi ad accendere la maledetta app. Ho fatto anche subito a chiuderla però, non mi andava niente. Ero solo con me stesso una sera a Londra, e volevo starmene tranquillo. In realtà nella sala di fronte a me c’era un party. Ed io, ho deciso di andare a dare un’occhiata. Non so dov’ero finito. Probabilmente una di quelle feste aziendali di Natale. Sarebbe stato Natale di lì a poco, ma io non ne sentivo proprio lo spirito.

La caciara era tanta, la musica un pop abbordabile e mainstream e la maggior parte dei presenti erano usciti da un film di Bollywood. Tutti ubriachi naturalmente. Ed ovviamente nessuno di vagamente interessante. Ho sorriso ai presenti e me ne sono tornato in stanza. Mentre ero lì che cercavo di attaccare il telefono a caricare nella spina del bagno per il rasoio (l’unica in stanza non inglese), mi sono fatto una doccia e mi sono rilassato un po’. Mentre mi lavavo i denti l’occhio mi cade sullo schermo del telefono e vedo che qualcuno mi ha scritto.

E’ un altro ospite dell’albergo. Mi dice che è un pilota della British Airways ed è lì per la notte. E’ turco. Gli scrivo che non lo so. Non mi va di fare sesso. Non faccio sesso da quando lui se n’è andato. E doverlo fare con qualcun’altro mi rattrista. Mi sento ancora legato. Decido che forse la devo piantare di fare Rossella. E che domani è si un altro giorno. Ma sicuramente un giorno senza di lui. Sono lì, che mi guardo allo specchio ed invito il pilota in stanza.

“Stanza n. 1014 tra un quarto d’ora” gli scrivo. Lui è puntuale e dopo quindici minuti lo sento bussare alla porta. Lo faccio accomodare e parliamo un po’ di noi. Mi dice che è stanco, ha volato per tutto il giorno. Vuole rilassarsi. Io gli racconto del lungo viaggio che mi attende, e di quanto abbia bisogno di tranquillità, poiché l’ultimo periodo è stato abbastanza devastante. Durante la conversazione, passa a raccontarmi di Dubai ed inizia a massaggiare i piedi.

Di li a poco, ci ritroviamo abbracciati, e ci baciamo. E poco dopo ancora scopro che ciò che si dice sui turchi è vero. In realtà però i nostri corpi si avvicinano soltanto. Ma nulla di più. Lui mi dice che mi vede teso. Lo sono. Molto. Non so se andare oltre, mi dispiace perché lui è davvero un gran figo. Un fisico tonico, delle enormi spalle e muscoli pronunciati che non deludono affatto. E’ carino. Mi guarda e mi bacia ancora.

Io sorrido, quasi mi imbarazzo. “Can I take care of you?” mi chiede sorridendo. Io annuisco. Mi allungo sulla pancia ed inizia a massaggiarmi dal collo. Mano a mano scende giù, fino al sacro. E poi ancora più giù. Poi comincia a massaggiarmi con la lingua. Ovunque. C’è stato un secondo in cui ho pensato di fare di più. Ma il secondo successivo me ne ero già pentito. Come una pazza squilibrata mi è scesa una lacrima che ha rigato il volto. La testa era ancora fra le nuvole, e pensavo a tutt’altro.

In realtà lui, neanche mi avesse letto nel pensiero, si interrompe e guarda l’orologio. Si sono fatte le tre, ed io non me ne sono minimamente reso conto. Mi dice che è tardi, che l’indomani dovrà volare da Londra a Dubai e che ha riposato poco durante il giorno. Io annuisco, sorrido e mi rivesto, in fondo se avesse voluto fare altro lo avrebbe fatto già da un bel po’.

Mi faccio un’altra doccia e mi metto finalmente a dormire. Non voglio trovare un altro motivo per deprimermi. In fondo non volevo fare niente dal principio, e deciderlo, mi ha reso sicuramente un po’ più sicuro di me stesso. Anche se sinceramente non ho mai pensato che rifiutare del sesso sia indice di sicurezza. Anzi. Mi faccio rapire dalla morbidezza delle lenzuola e rifletto su quanto si difficile fare determinate cose. Chiudo gli occhi, cosciente di essere ancora un po’ triste. Ma passerà. Lo spero, almeno.

La fine di Spiderman.

Storicamente tutto quello che accade ad una persona nel corso della sua vita serve a creare, in qualche modo, il carattere, a formarsi e perché no a scappare davanti quelle situazioni in cui si mette in pericolo il cuore. Figuriamoci poi, se si tratta di me. Uno che nelle situazioni difficili ci si butta a capofitto. Senza mai pensare alle conseguenze. Senza mai pensare se quello che si sta facendo abbia senso o meno. Ritrovandosi poi male. Anzi come dici il mio amico Piergiorgio “Male male“. Perché rafforzare rende meglio l’idea. Così, dopo aver chiarito a tutti di essere uno zero, adesso penso di aver raggiunto un nuovo stato. Il niente.

Si perché se una settimana fa eravamo stretti a baciarci e a farne di ogni, oggi, invece è difficile comunicare. Oggi mi per me è rimasto un piccolo spazio che si consuma con qualche messaggio privo di ogni senso. Certo sono sicuramente io che pretendo da chi forse non c’è niente da pretendere, ci sono, ma è davvero difficile fare una telefonata? E’ davvero impossibile ritagliare uno spazio che sia solo mio. Per me? Evidentemente si. Evidentemente quelle quattro inutili cazzate scritte per messaggio, per lui hanno più senso scritte che dette. Per quanto sempre cazzate siano. Quando in realtà neanche mi interessano. E forse neanche a lui interessano dirle. Ma non so per quale vago motivo invece me le dice.

In realtà io sono in un punto di non ritorno totale. Non ho più interesse nel prossimo. Nessuno. Non mi va neanche più di parlare. Ed intorno a me mi guardano tutti come se fossi impazzito di colpo. Come se non fosse successo niente. Come se lui, andatosene via a 400 km da qui con il suo ragazzo abbia fatto la cosa più giusta del mondo. Forse è così. È il suo ragazzo è anche un altro aspetto importante. So cose di lui che a ripeterle mi vergogno. Ed io sono notoriamente uno che non si vergogna di niente. E mi sono state raccontate da un fidanzato stanco di tutto. Di certo non me le sono inventate.

Delle cose che non mi sognerei mai di ripetere. Dei dettagli di cui lui stesso mi ha messo a conoscenza, ovviamente. Dettagli che oggi sembrano avere un valore solo per me. Dettagli che in chiunque precluderebbero un futuro. In lui no. In lui addirittura sono stati utili a motivare un trasferimento. Perché lui di Roma si è rotto. Lui che di Roma non conosce niente. A lui è bastato solo parlarci con la sua dolce metà per sistemare tutto. Pensa quanto era semplice. Invece che finire sotto le lenzuola del mio letto bastava semplicemente parlare. A me ovviamente questa possibilità è stata negata. Per me non c’è stata alternativa. Io devo pensare ad altro. Io devo fare qualcosa. Come se non facessi niente dalla mattina alla sera.

Neanche l’ultima sera è stata come io la volevo. No. Perché lui aveva già deciso che avremmo fatto chiacchiere e ci saremmo divertiti, che nel suo idioma vuol dire vengo, ma non mi ti avvicino neanche se mi implori. E quindi arriviamo a venerdì sera. Quando se n’è andato via, dopo che mi ha dato l’ultimo contentino, un caffè dopo cena. Dopo una giornata pesantissima. Dopo una giornata che io non posso neanche immaginare. Io che mi alzo all’alba ogni giorno, che devo far filare tutto liscio finché non striscio il cartellino. Che devo riuscire a gestire tutto e far finta che vada tutto bene. Perché il mio tentennare seppur minimo crea tensioni, fraintendimenti e cose che neanche capisco più. E devo tenermi un messaggino di merda, che non sa di niente. Che non ha alcun valore.

Una fotina di lui che sorride che serve a sdrammatizzare quando io gli dico che per me è come se fosse morto, perché non posso sentirlo. Non posso telefonargli perché non mi risponde. Anzi risponde con un altro messaggio. “Non posso parlare, ci sentiamo dopo”. Il dopo non esiste naturalmente. Il mio dopo non c’è mai. E forse mi viene da dire solo che lo stupido sono io. Che non c’è altro da aggiungere a questa storia che non è storia, che è stata un po’ sesso, un po’ odio, e poi un po’ di niente. Che dovrebbe lasciarci amici. Amici che non si possono sentire per un motivo che non esiste tra gli amici veri. Io che, se avesse bisogno, sarei capace a stare da lui in un paio d’ore. Ma sarebbe comunque tutto inutile.

spiderman

Perché mi sono messo il giubbetto con la bomba e gli ho consegnato il telecomando con il detonatore. È così devo accettare anche la presa in giro. Lo sguardo di commiserazione di chi mi sta intorno perché non capisce quello che provo, e l’ironia di chi mi sente piangere e non se lo spiega. Mentre lui, ha accesso anche ai miei pensieri, perché li legge qui, su una zona franca. Che non consola più nessuno. Specialmente me. Sono rimasto come Carrie, quando va in chiesa pazzesca per sposarsi e Big non arriva. Big poi l’ha capita. Tutti lo hanno capito. Tranne io. Ma almeno Carrie gli ha sfracassato i fiori in faccia. Io non ho potuto.

E adesso ciò che resta di me è solo delusione e stanchezza. Lo scrivo oggi, perché pure oggi ha un significato, oggi sarebbero stati sette mesi dalla prima volta che siamo usciti. Perché per me queste sono le cose da ricordare: le date, gli abbracci e gli scazzi. Tutto. Sette mesi che ho vissuto intensamente, di cui non mi pento di niente e che soprattutto rifarei solo in maniera meno concitata è più rilassata. Ma le cose le capisci solo dopo. Solo quando tutto è finito. Per cui la pianto qui, con questo post. Ci metto un punto e vado a capo. Perché in fondo piangere non ha poi molto senso. Anche se non riesco a smettere. “D’altronde abbiamo giocato” mi sembra che dica. E devo vivere con la certezza che lui ci sarà e c’è. Ed è proprio questo che mi da fastidio, perché non è assolutamente vero. Resterà solo un altro di quei ragazzi carini che è passato e di cui non ricorderò il nome né il compleanno. O almeno tento di convincermene.

Io non riesco ad abituarmi a quest’idea. Per lui non è affatto un problema. Lui preferisce condividere uno status su facebook piuttosto che con me. Mi auguro non si stanchi mai della sua nuova vita, perché mi pare più che l’abbia fatto perché non sapeva che altro fare. E così finisce un altro ciclo. E anche se io non avrei mai voluto mi ritrovo ancora qui, senza altro di dire e con un mood nerissimo. Quel mood che tanto ci ho messo a ritrovare è svanito in un secondo. E forse mi viene da pensare che lo avevo ritrovato perché lui era entrato nella mia vita. E seppur in tutto ciò Spiderman non c’entra niente, fidatevi che ci sta tutto. Perchè Spiderman è uno che non si arrende mai, E’ uno che pure mezzo morente va avanti per il suo obiettivo. Fa l’eroe. E lui, era il mio eroe. Era venuto e mi aveva restituito il sorriso che avevo perso, per poi portarselo via di nuovo.

Sono certo che il finale è un po’ incomprensibile, ma credetemi, un senso ce l’ha. Molto più di me. E questo forse è l’ultimo regalo che gli ho fatto. E adesso non scriverò più di lui, perché posso essere scemo, ma non sono cretino. Non più per lo meno. E pure Spiderman non c’è l’ha fatta, davanti alla pochezza degli esseri umani.

Zero.

Preparatevi. E’ un post divertentissimo. (Non è vero, ma un preambolo più triste del post non mi è venuto in mente). 

Fin da piccolo ho sempre amato le sirene delle ambulanze. Per quanto significato di emergenza, mi hanno sempre affascinato. Le mie giornate sembrano essere scandite dalle sirene. Inevitabilmente ci sono finito in mezzo perché lavorando nella Sanità l’ambulanza me la sento riecheggiare praticamente dalla mattina alla sera. Questo per allacciarmi a come mi sento ultimamente. Ecco, avrei bisogno di un’ambulanza. Avrei bisogno che mi venissero a prendere e mi somministrassero qualcosa che mi faccia ritrovare la speranza. Qualcosa che mi faccia stare meglio.

Sono sempre stato molto positivo, nonostante la mia pienezza visualizzabile su ogni social, ho sempre trovato il sorriso nei momenti di più difficoltà. Ma adesso no. Non ci riesco. Non riesco a trovare pace. Non riesco a trovare la via per uscire da questo dramma. E i drammi, come di consueto, sono sempre dietro l’angolo. Anzi, io me lo sono trovato in piazza. Era una fredda serata di aprile, e lui mi stava aspettando. Era vestito benissimo, portava una giacca ed una camicia. Ricordo i colori, e ricordo le sue mani. E’ la prima cosa che guardo. Delle mani perfette.

Di li il tempo è volato. Ma lentamente. Prima ero l’amante, poi l’amico, poi di nuovo l’amante. Poi più niente. Di colpo. Poi sono stato il suo acerrimo nemico. Il capriccio di una sera. E di nuovo amici. Quando in realtà io ero su tutto un altro pianeta, e attendevo di risolvermi, e di stringerlo ancora tra le mie braccia, lui mi ha dato il colpo di grazia. “Me ne vado, ad inizio del mese prossimo mi trasferisco“. E li, in quel momento, il mio cuore che sanguinava si è spazzato. In milioni di microscopici pezzi. Ci siamo visti ancora, ci eravamo detti che saremmo andati a cena in un posto da tempo. Ci siamo andati. Eravamo lì, ma io ero assente. Completamente. Lo guardavo e vedevo che lui non c’era già più. Nei suoi occhi c’è ciò che lo aspetta a trecento chilometri da qui. E per me non c’è spazio.

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Per me non c’è un dopo. Non c’è un futuro. Io sono qui, adesso, ed abbiamo scherzato. Abbiamo giocato. Niente è successo. Io mi sento ardere di desiderio. E lui si fa saltare i nervi perché uso appellativi inappropriati, secondo lui, per chiamare il suo fidanzato. Che ovviamente non ha tradito. Non è successo. Non era nel mio letto. Non era con me. No. Adesso ha capito che è stato tutto uno sbaglio. Tutto un errore. Ed io sono solo una che passava di lì. Chiunque sente questa storia mi fa pat pat sulle spalla e mi dice che devo dimenticarlo, che non vale neanche la pena.

Errore. Per me è valsa tutta la pena. Ogni gesto, anche se me lo ha fatto rimpiangere lui, l’ho fatto perché sentito. Quello che non capisco e non mando proprio giù, e il suo sguardo che trasalisce quando gli urlo per la strada che lo amo. In mezzo a San Lorenzo. Perché io me la vivo. Nel bene e nel male. E perché non c’è cosa peggiore che mentire a se stessi. E poi siamo stati tre ore a girare in macchina a cercare la strada per una gelateria. Ma il gelato non lo voleva nessuno. Ammutoliti. Come se fosse stata staccata la spina ad una malato terminale. L’onda è fissa, continua ed il bip è prolungato. Io sono morto, e nessuno se n’è accorto. Non mi do pace.

Lui è felice. Ha imparato la lezione. Adesso vuole impegnarsi per avere un rapporto corretto con il suo fidanzato. Basato sul rispetto. Lontano da me. Lontano da qui. Però va tutto bene. Mi scrive su what’s app, mi chiama , mi racconta le sue giornate. Va tutto benissimo. Io dovrei stare sereno. Dovrei stare tranquillo. Ma non lo sono. Mi sento svenire. E mi trascino da una parte all’altra della città alla ricerca di conforto. Non so dove andarlo a cercare, ma è così. E se guardo indietro, tutto mi parla di lui. E invece lui ha cancellato tutto da me. Ha fatto fuori i suoi social per non lasciare traccia di me.

E li ha riaperti da zero. Così che io, con ii miei like non ci fossi più. Non che fosse importante. E sono anche certo di non essere l’unico. Che ci sia sicuramente un Simone o un Alessandro che mi hanno sostituito. E un tarlo che mi punzecchia il cervello. Non lo posso dire con certezza, ma so che è così. Lui nega, ma non mi spiega. Perché neanche una spiegazione mi è concessa. Ed io guardo tutto dall’esterno, dopo aver finito le lacrime che ho in corpo, e mi sento solo uno zero. Un punto sbiadito della sua esistenza. Che non va da nessuna parte e vede sgretolarsi intorno tutto quello che di certo aveva.

Vorrei una carezza. Un bacio. Un abbraccio. Anche del sesso d’addio, volendo. Un emozione reale. Senza controllo. Ma so già che non ci sarà. E una volta lontano da qui, potrà finalmente ignorarmi. Per sempre. Come se non fossi mai esistito. Come se fossi proprio il niente. Come uno zero. Perché questo è quello che valgo. E il valore me lo ha dato lui. Al limite degli urli mi ha anche detto di dire tutto al suo ragazzo. Così, almeno sarei stato contento. Un altro errore. Sa benissimo che sono talmente sfigato che non lo farei mai, e non sarei mai capace di fargli del male. Non potrei mai.

Lui ride, scherza e prepara le valigie. Io ho la testa vuota e penso solo al giorno in cui definitivamente se ne andrà, e lo perderò per sempre. Ma devo stare tranquillo. Non cambierà niente. Me lo ripete come quando si parla ad una persona psichiatrica che non vuole prendere le medicine. E’ tutto ok, dice. Ma lo sa anche lui che non è così. Io non mi esprimo più di tanto e vivo questi ultimi giorni come un condannato a morte. Ma sono già morto. L’ho già detto, vero? Ripenso incessantemente a quel giorno al parco, quando il suo cane è scappato e lui si è scapicollato per andarlo a riprendere. Dovevo andarmene lì, e mettermi in salvo. Lì avrei potuto ancora salvarmi. Forse.

Deriva. E ritorno.

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Non ho mai detto a nessuno perché ho aperto questo blog. Nessuno. Neanche alle persone che mi sono più vicine. Tutto era nato per sdrammatizzare ed ironizzare sulle disavventure che spesso mi trovavo a vivere. E per un qualcosa di più personale, che mi ha spinto una mattina ad alzarmi ed iniziare a scrivere. Di quella motivazione, però, negli ultimi tempi me ne sono assolutamente dimenticato. Sarà stato il periodo difficile, la delusione e tutte gli stress che si sono accumulati insieme, ma tutto quello che avevo in testa era per una sola ed unica persona. L’unica che forse davvero a cui di me non frega niente. Ed è un fatto evidente ai più. Ma non a me. O per lo meno fino a quando non lo realizzato.

Ecco adesso aprire un pippone su questo mi sembra assolutamente inutile. Visto che di pipponi ultimamente ne ho fatti solo in via del tutto metaforica. In realtà quello che vorrei aprire è una chiara e semplice riflessione su cosa sono diventato. Primo fra tutti, sono diventato antipatico a me stesso. Una cosa poco gestibile, visto che se inizio ad avere problemi anche con me stesso, non credo di poter avere un futuro di coppia. Anzi. Inizialmente ero solo sfastidiato da me stesso. Poi il fastidio ha lasciato spazio all’odio. Ho odiato profondamente me stesso. Mi sono murato vivo. E inzerbinato all’infinito. Una situazione spinosa e di zero equilibri.

Io purtroppo resisto poco, e non sono affatto capace di distogliere l’attenzione quando qualcuno mi piace davvero. Anche se ci ho provato, e be, ecco, sono stati degli esperimenti fallimentari e per niente gratificanti. E trovavo sempre il modo per ritornare a chi invece doveva prendersi un bel calcio in culo. Ho provato, però: per la prima volta ho ho mandato un DM su twitter. Non lo avevo mai fatto prima perché ho sempre pensato che farlo voleva dire rompere una regola fondamentale che mi ero imposto, ovvero non trasformare il mio account in una succursale di grindr. Ho rotto il patto, con me stesso perché ero stanco di stare a letto a piangere per uno fidanzato. Che mi chiedeva di tornare con un messaggio tutto maiuscolo per di più. Ma vabbè, ho preso il telefono in mano e gli ho scritto. Un tizio carino, visto a una serata, e che sinceramente mi è piaciuto subito. Ma non ero abbastanza ubriaco per provarci. Così, nei giorni successivi, ho intavolato una conversazione su twitter. Che si è conclusa come segue.

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Dopo risposte arrivate dopo ogni otto ore circa, gli ho sbottato. E lui mi ha chiesto pure “In che senso?”. Forse avrei dovuto dirgli che volevo ficcargli la lingua in bocca. Ma non l’ho fatto. E non ho neanche risposto. Mi sono preso la briga di non dare spiegazioni. Avrei voluto scrivergli più semplicemente, che lo trovavo interessante, e che mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Seriamente. Ma no. Ho avuto il terrore di farlo per paura di finire in un manicomio questa volta. E ho lasciato cadere la cosa così.  Ed è in quel momento che mi sono rivisto. Non mi rivedevo da un bel po’. Il tempo ultimamente si era dilatato, le giornate stentavano a passare, ed io le vivevo solo perché non potevo fare diversamente. Senza un briciolo di coscienza. Senza capire il perché e il come di quello che pensavo.

Ed ho pensato qualsiasi cosa, anche la più estrema. Ma non ero ancora ravveduto pienamente. No. Dovevo far passare anche una decina di giorni per capire che in realtà avevo perso totalmente di vista perché ero qui. Perché avevo deciso di scrivere. Era tutto iniziato nel 2008, quando ho creduto di aver incontrato la persona giusta. Invece è stato un breve passaggio, un bagliore, che si era solo avvicinato per sparire subito dopo. Volevo che lui potesse aver la possibilità di capire davvero chi ero, leggendomi. Di avere un quadro veritiero su chi ero io. Perché di me non aveva visto niente. Volevo che sapesse quanto volevo averlo vicino. Ci ha pensato twitter, in qualche modo, a far sì che lui leggesse. Ecco, adesso non mi saluta.

Non mi dispiace neanche granché. Il punto è che a lui non interesso. Lui era li, per giocare. Lo ha fatto ed è sparito. Una volta entrato in qhttp://www.tizianoferrofan.com/homepage/all-music-italia-annuncia-lalbum-di-tiziano-ferro-uscira-il-25-novembre-in-due-versioniuest’ottica, tutto il dolore, tutte le lacrime mi sembrano solo ed e soltanto una gran perdita di tempo. E forse è così. Ma come canta qualcuno, che ha molto più talento di me, “che ora sò, che il tempo non cancella niente“. Tutto resterà nella mia testa, e servirà per farmi riconoscere, finalmente, quello giusto. A tutti gli altri non dico niente, loro non lo sanno che si sono persi. Io, si. Ed è sufficiente. E mi spinge, inevitabilmente, a girare l’angolo e ad attendere quello giusto. Che tanto prima o poi il dramma finisce, si porta via tutto. E adesso si è portato via, te.

O almeno, ci spero vivamente.

Ringrazio Daniele per aver dato luce al nuovo header del blog. Thanks ❤

Smetto quando voglio. Uncensored Version

N.d.AB. – Nota di Annabelle Bronstein 

Per capirci. Il post precedente in realtà è la  versione riveduta e corretta di questo, che evidentemente avevo scritto prima. Avevo deciso di non pubblicarlo perché mi sembrava un po’ troppo crudo. E pesante. Poi oggi, preso dallo scazzo, me lo sono riletto e sinceramente l’ho trovato molto più viscerale del precedente. Molto più me. Per cui ho deciso che andava lo stesso pubblicato. Ed eccolo qui. Tanto peggio di così non penso possa andare. Per cui non pensate che sia una ripetizione delle cose già chiarite nel precedente. Sinceramente messe così, mi appartengono di più, per questo non mi va di non pubblicarlo. Moltobbene.

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Se Tiziano non se lo sapeva spiegare, mentre le intenzioni di Mina passavano attraverso un telefono, io, che notoriamente vengo sopraffatto da ciò che provo come pensate che potrei mai risolvere una situazione spinosa? Le parole amore, amante, sesso, amicizia, cena, pompino prima erano utilizzate in maniera impropria ed anche un tantino fuori luogo. Adesso invece c’è il gelo. Una lastra di ghiaccio di almeno 2 metri che limita ogni tipo di contatto. Persino rispondere al telefono sembra sia diventato difficile. E come una specie di maledizione, tutto quello che non volevo accadesse di nuovo, inevitabilmente, è accaduto. Mettete pure sulla bilancia il fatto che lui ha un ragazzo a casa che lo aspetta. Ed io, divento la Maleficient (anche un po’ Deficient volendo) della situazione.

La sfigata, donnamerda, senzaunavita che attende che lui lo degni di un minimo di considerazione. E no. Non ci siamo. Qui forse ho perso un attimo di vista chi sono io e chi è lui. Vedete piuttosto che elemosinare attenzione da uno che dice di volermi bene, e che evita di rivolgermi parola perché se no mi fa del male, e di chiedergli il perché siamo arrivati a questo punto senza sentirmi una sfigata orrenda che ripete la poesia davanti allo specchio prima del pranzo di Natale con i parenti ho deciso io di farla finita. Cosa dovrebbe darmi una persona del genere? Una persona alla quale chiedo di esserci perché passo un momento di merda, (ma merda seria), e il massimo della mia richiesta è esigere da lui una banale telefonata? Ecco, Clark Kent, che era anche un tantinello più impegnato, aveva tempo e modo e maniera di spupazzarsi la sua Lois.

Ma il punto è questo. Io chi sono? Non sono certo Lois per lui. E non sono forse neanche un amico, come dice lui, perché io gli amici non sognerei di trattarli a merda. Io sono stato un passatempo estivo. Una fuga temporanea dalla sua noiosissima storia d’amore che ha il massimo della sua espressione quando torna a casa e giocano insieme alla Play Station. Eh si. E ciò nonostante devo sorbirmi anche un trattato di psicologia su di me, ovvero che io altamente ossessionato da lui, perché ha dimenticato di rispondere ad un messaggio. Peccato che prima di quella risposta mi ha tipo inondato di duemila messaggi come se non avesse davvero null’altro da fare. Ecco, quando poi provo a spiegargli queste cose, quando provo a parlare in maniera pacata senza cercare di urtarlo, e fargli capire che io in qualche modo tengo a lui e che non capisco cosa stracazzo sia cambiato da quando anche lui provava piacere a sentirmi, bè, la risposta è alquanto eloquente. (Segue foto).

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Una risposta, non c’è. E così io, a trentuno anni, devo farmi bastare di essere stato per quattro mesi il diversivo di una persona che usa e sfrutta le persone come meglio crede, perché il solo fatto di avere una storia ed una convivenza che fanno acqua da tutte le parti, ed una sua innata predisposizione a ficcare l’uccello nel culo degli altri (e non solo del suo fidanzato ufficiale) lo facciano sentire autorizzato a trattare le persone senza un minimo di rispetto. Minimo intendo alzare il telefono e dire “Hey tu, coglione, sei vivo? Stai bene?”. No. Non è possibile. Sottolineo, non è possibile che io glielo abbia permesso. Eh si. Per l’ennesima volta ho sbagliato su tutta la linea. Mi sono convinto che quella era una persona che meritava la mia stima.

Ecco. Machittisincula. Sono arrivato addirittura a cancellare il mio profilo facebook, perché lui si è sentito autorizzato a dirmi che io lo stalkeravo, e che ero ossessionato da quello che faceva lui. Vedete, ho km di messaggi che attestano che tutto quello che è successo non è frutto della mia fantasia. Ho anche km di prove che se solo il suo ragazzo vedrebbe credo che durerebbe come un gatto in tangenziale. Ma avrebbe senso? No. Per niente. Sono arrivato alla conclusione che sono troppo buono, e questo forse lo avrei dovuto capire da almeno cinque o sei anni. Ma non sono mai arrivato primo. Anzi il paradosso vuole che io sia sempre ultimo. Soprattutto nel capire le cose. Ma poi, quando le capisco, cambio. Ed ora, sono cambiato.

Mi dispiace solo per alcuni dettagli. Lui mi piace davvero. Non a caso uso il presente. Ecco, dopo diverse delusioni, troppe a dire il vero, per la prima volta sono riuscito ad avvicinarmi ad una persona come volevo io. Probabilmente se non ci fosse stato di mezzo il suo +1, le cose sarebbero state totalmente diverse. Per la prima volta avevo l’impressione che lui mi vedesse. Un concetto che mi viene difficile da spiegare. In qualche modo eravamo lì, l’uno per l’altro. Ed è quello che io ho sempre ricercato in un possibile partner. Fino ad un certo punto. Perché poi ha smesso di vedermi. I fiori si sono appassiti ed io ho iniziato a chiedergli perché. Forse crede che se mi risponde poi mi presento sotto casa sua con una squadra di majorette per chiedergli la mano.

EINVECE. Niente di tutto ciò. Resta la mia amarezza. Questo dovevo dire. Ed ora non ne parlerò più. Non ho smosso una sua reazione con cose molto più serie, figuriamoci se adesso alza il telefono e mi chiede se va tutto bene. Non va tutto bene. Dentro di me è un marasma, e tutto è sottosopra nel posto sbagliato. Lui è scomparso. Salvo poi invece trovarmelo sorridente col suo ragazzo, su ogni cazzo di social. Probabilmente è così che bisogna fare per essere felici per davvero. Ripetersi allo sfinimento che va tutto bene, fino a che ci si crede per davvero. Per carità, preferisco essere triste e godermi i miei stati d’animo depressivi-piena-angoscianti. Che almeno sono una persona vera. Con tutte le contraddizioni del caso. Perché si, se non riesco a dirti che ti voglio bene, si io sto male. Ma come una merda.

Detto questo, farò finta di non aver detto niente. Riattiverò la mia pagina facebook tra cinque minuti, e la farò finita di perdere tempo. Mi farò scivolare addosso questa ennesima delusione, e proverò a ritrovare il mood. Perché io, per fortuna, lo so chi sono e quello che voglio. E tu, non hai capito proprio niente di me. Niente. Sayonara.

L’Architetto premuroso

Venerdì 27/06

Lui mi guarda e sorride sotto i baffi. Io inizio a pensare che cosa mai scatena la sua ironia a tal punto. Non lo capisco. Sarebbe ora di cena, ma stiamo facendo un aperitivo. Ha portato un bottiglia di prosecco, ed io ho preparato degli stuzzichini. Gallette di riso con Philadelphia e rucola. Continua a guardarmi e a ridere. Ma che cazzo si ride? Lo ignoro e sorseggio lentamente il mio prosecco. Era da tanto che non lo bevevo. Decido di essere sincero e gli chiedo come mai si sta scompisciando. “No scusa, è che hai tutta la rucola in mezzo hai denti… Mi faceva ridere!”. OTTIMO. Avere lo specchio in camera da pranzo evidentemente non è sufficiente.

Certo quando apro la bocca lo spettacolo è indecente. Sembro una cariatide di 175 anni, ed ho tutti i denti sporchi di rucola. Merda. Questa è una cosa tipica alla Bridget Jones più che alla Samanta Jones. Poco male. Sorrido e fingo sicurezza nonostante ho le guance fucsia. Con la scusa di lavare le mani, mi apparto in bagno, e mi lavo anche i denti. Sono talmente genio, che dopo 5 minuti che ero li a lustrarli, giustamente, l’Architetto richiama la mia attenzione: “Non starai mica lavandoti i denti? Su che sei buffo!”. Merda, stra merda. Sputo il dentifricio e fingo un tono sicuro “Ma no, è che sto controllando delle pellicine!”.

Ecco penso che non dicevo pellicine dagli anni 90, forse. Vabbè mi risciacquo la bocca e nel frattempo suonano alla porta. E’ il ragazzo delle consegne. Puntualissimo. Lascia due supplì, una capricciosa per me, ed una rucola e bresaola per lui. Patatine per entrambi. L’Architetto non mi da neanche il tempo di aprire il portafogli che paga lui. Tutto. Che carino. Spera che io dopo glielo dia. #Einvece. In realtà adesso rido io, apro il cartone e gli metto la pizza sotto il naso. “Adesso voglio vedere come ti combini!!! Se sapevo non me li lavavo i denti AUHAAHAUHUAHHUAH!” dico sghignazzando.

La cena scorre velocemente, tra chiacchiere e risatine varie. L’Architetto ed io siamo usciti tre volte fino ad ora. Questo è il primo appuntamento ad ora di cena, ci siamo visti solo per caffè in  orari in cui il sole era sempre troppo in alto per intentare qualche approccio. Ad ogni modo, tutto va per il verso giusto. Finita la pizza preparo il caffè con la cremina, e gli servo anche un amaro (niente male) al cioccolato. Ottimo. Ci spostiamo però in camera mia e ci accomodiamo sul divano con le luci soffuse. Tutto urla scopami ASAP, anche se io sono ancora indeciso se farci roba o meno.

Si. Lo so che non ci credete manco per il cazzo, ma per la prima volta è proprio questo che mi balena nella testa. Mi sento totalmente inadeguato, e anche sessualmente ho l’ansia di non riuscire a dare il massimo. Decido comunque di non pensarci troppo, e di far condurre la situazione anche a lui. D’altronde potrebbe anche essere che a lui non vada. Ad ogni modo ci pensa il discorso lavoro a distrarci ulteriormente. A me rode il culo perché non mi hanno pagato tutto lo stipendio. Lui, è un po’ demoralizzato perché lavora in uno studio noioso e non si sente soddisfatto in niente.

Per di più conveniamo entrambi che il periodo storico non è dei migliori per licenziarsi e provare a cercare altro. Non c’è assolutamente niente in giro. Coscienti delle nostre situazioni precarie il discorso si spegne poco a poco. “Scusa, devo darti una cosa: (va verso il corridoio e prende una busta, che io non avevo notato fino a quel momento). L’altra volta ho visto che cercavi questo su Amazon e te l’ho preso. Spero che tu non lo abbia già ordinato…” Apro il pacchetto e trovo il peluche di uno dei Mignon di Cattivissimo Me.  Ecco, in quel preciso istante ho avuto un momento di panico. In realtà non lo avevo ordinato per me. Lo stavo ordinando per #ilRagazzoColSuv. Con il quale non mi pare le cose vadano molto bene. Ma questo lui non lo saprà mai.

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E sono quasi, per un pelo, riuscito a scordarmene. Invece, il destino, che a quanto pare lavora molto più di quello che pensiamo, me lo aveva rimesso lì. Tra le scatole. Ovviamente ho dribblato, e ringraziato, come si conviene. E dopo altre chiacchiere, non siamo andati alla fase sesso, così come tutti avrebbero creduto. Non so bene neanche perché a essere sincero. So solo che quel regalino, così random quanto inutile mi aveva un attimo devastato. Con la scusa che il giorno dopo sarei andato a lavoro, poco prima della mezzanotte l’Architetto se n’è andato. Accontentandosi di un lungo bacio sull’uscio di casa.

Ecco, un limone così non me lo ricordavo da tempo. Almeno. E comunque, il dramma è sempre dietro l’angolo. Sempre. Non finirò mai di dirvelo. Ho dormito poco e male venerdì notte, al pensiero di quanto lui sia stato carino, e di quanto quell’altro sia un mostro in confronto. Ma i confronti non aiutano mai, e rimuginarci troppo sopra anche. Per questo, alle 4 passate mi sono addormentato. Peccato che la sveglia ha suonato alle 7. Peccato.