L’appuntamento perfetto… Finchè

– Toc toc
– Chi è?
-E’ l’inenarrabile voglia di cazzo. Che dobbiamo fare? Sono cinque mesi che non fai sesso!!!
-Lo so! Che dovrei fare?
-Esci. Vedi gente. Scopa

Potrebbe bastare questo a riassumere tutto. Si perché quando ti calpestano il cuore è difficile riprendere determinate routine. Avvicinarsi, toccare, baciare qualcun’altro. Gesti semplici che nella mia testa non avevano più una vera e propria realizzazione. Mi chiedevo ripetutamente, “ma come si fa?”. Come mio nipote, che ha scoperto da poco le mani, e ancora non ha visto i piedi, arriva a toccarsi fino al ginocchio, io dovevo riscoprire quei movimenti.

Non avevo affatto voglia. Il solo pensiero mi faceva rabbrividire. Così, dopo quasi tre mesi passati chiuso in casa sul letto a piangere e ad abbuffarmi della qualunque, ho deciso di dare una possibilità all’unico che mi sembrava valido. Il collega. Che per inciso vuol dire stessa età, stesso lavoro, stessa ironia ma di Roma. Una sorta di garanzia, visto che fino a quel momento ero inciampato sempre nelle persone più sbagliate sulla piazza. Dettaglio strettamente necessario: single!

Mi sono dovuto forzare e non poco a decidere, per questo, un sabato sera senza niente di meglio da fare ci siamo dati appuntamento all’Altare della Patria verso le 21:30. Un appuntamento senza doppi fini. In realtà alle 17 ho iniziato a realizzare il fatto che dovevo andarci per davvero. Ed ecco, non mi andava. Mi sono dovuto forzare, mettendo tutto sul piano “se non ci vai sei una sfigata orrenda”. Alle 19 ero già pronto. Con l’ansia che mi si mangiava.

Sono uscito. A piedi. Da Montesacro in centro. Nel tragitto ho pensato ad una marea di dettagli devastanti: stavo facendo il primo passo per uscire da quella maledetta storia? Stavo facendo qualcosa per me? Oppure stavo facendo qualcosa che gli altri si aspettassero facessi? Non  lo capivo. Me lo ripetevo in testa, ma non sapevo gestire le risposte. Sono arrivato alle 21. Ed ho passeggiato ancora un po’. Stavo per ripensarci, poi  IlCollega mi scrive: “Sto cercando parcheggio. Ottima scelta il centro, vero?”.

Ecco. Non potevo scappare più. Stava arrivando. Prima che potessi realizzare il da farsi me lo trovo davanti. Eccolo. Di fronte a me. Carino, molto carino. Belle mani. Unghie corte. Curate, e pulite. Bel culo. Porta un golfino di lana, nonostante l’umidità di fine marzo. Io sorrido. E mi lascio guidare. Il primo impatto è positivo. Iniziamo a passeggiare e a parlare. Di lavoro, di storie passate, di quello che si vorrebbe e di quello che non si ha.

Lui è molto misurato. Non si espone. Ma vedo che mi osserva. E’ simpatico però, mi mette a mio agio. Rimaniamo in una sorta di confort-zone, senza andare oltre, utile ad entrambi forse. Si ride, si gioca, ma tutto sul vago e sull’innocuo. Ci fermiamo in un wine bar a bere qualcosa. Io parlo dei gay, di Roma, di quanto mi sia stufato di correre dietro alle persone. Lui mi chiede di non dire gay ad alta voce.

I suoi non lo sanno. Di lui sa solo un suo caro amico. Ecco, c’era qualcosa che non andava. “Per piacere non usare certe parole. La gente ci guarda”. Bene. Voglio comprendere, in fondo non siamo tutti uguali. Beviamo, ridiamo. Parliamo di sesso. E’ lui a chiedermi che gusti ho. Cosa mi piace. Io rispondo in maniera molto dettagliata. In fondo siamo qui per giocare. Gioco. Lui ride. Mi dice i suoi gusti e quello che lo eccita. “Usciamo di qui. Devo fumare!” e mi schiaccia il piede per accelerare il tutto.

Mentre gli accendo la sigaretta guarda le mie mani. “Finalmente una persona con le mani a posto. Unghia corte. Pulite. Belle mani, mi piacciono”. Sorrido. Si vede che siamo infermieri. Ho pensato la stessa cosa, e mi piace pensare che sia un dettaglio positivo. Continuiamo a passeggiare, siamo più rilassati entrambi. L’alcool aiuta, sempre. Ci buttiamo sui Fori Imperiali, e finiamo davanti la Chiesa dei Santi Luca e Martina.

E’ bastato poco e ci siamo avvicinati. IlCollega sa il fatto suo, e bacia anche da Dio. Mi stringe. Mi tocca. Cerca i miei occhi. Io mi sento finalmente i polmoni pieni d’aria. Stiamo lì una mezz’ora buona, ci fermiamo solo quando arriva gente. Ci guardiamo intensamente, e lui, sorride. Sembra felice. “Sei bellissimo” mi dice a bassa voce. Esattamente quello di cui avevo bisogno. “Qual’è la casa più vicina, la mia o la tua?” mi chiede.

La mia. La mia è sempre la casa più vicina. Andiamo a prendere la sua macchina e ci andiamo. Quello che ne segue sono un paio d’ore di assoluto piacere. Lui mi dice delle cose che mi hanno sconvolto. Io non mi sbilancio. Se ho imparato qualcosa dal passato è meglio lasciare qualcosa all’immaginazione. Stiamo benissimo, non bene. Facciamo qualsiasi cosa e la facciamo guardandoci sempre dritto negli occhi. Mi risento i piedi a terra. Risento il battito del mio cuore. Sono felice.

Nelle due settimane successive…

Il mantra è stato NON PENSARCI, NON ESAGERARE, STAI SERENO. Mi sono mantenuto per tutta la settimana. Non ho esagerato con i messaggi. Non ho esagerato nell’esprimermi troppo. La Burina, la mia coinquilina, ha continuato a ripetermi di stare tranquillo e di farmi cercare. Lui mi ha cercato, ma qualcosa non mi tornava. Dovevamo vederci il martedì, ma non poteva. Facciamo venerdì, ha una cena. Aggiorniamoci. Vediamoci lunedì. Devo stare con i miei. Vediamoci mercoledì. Non posso, impegni con il lavoro. Domenica? Fuori per il weekend.

Ho aspettato il lunedì successivo per parlare. “Mi dici che problema c’è. Io sono stato benissimo. Ma ho l’impressione che non mi vuoi vedere. Che succede?” gli scrivo. “Scusami, hai ragione. Ma da venerdì mi vedo con un altro. Una cosa che non avevo previsto. E’ sbucato fuori dal nulla, non lo sentivo da mesi. Non ho premeditato niente, è solo successo e basta” mi scrive. Neanche mi telefona.

quote

Ecco. Mi spiegate quello che vuol dire? Niente, vero? Sono stato anche io questa volta? Non lo so. So solo, che non vale neanche la pena rammaricarcisi troppo. In fondo basta avere una buona giustificazione. Ed io dovrei ricominciare da zero? Come se tutto quello che è successo fino ad oggi non mi avesse minimamente cambiato. Come se tutte le cose che ho dovuto sopportare e digerire non mi avessero minimamente toccato.

Ovviamente non mi sono innamorato. Ma avrei potuto. Ma allora che ci sei venuto a fare? Che me le hai dette a fare. C’ero solo io che lo posso testimoniare. E Roma. Ma forse anche Roma direbbe che non è stato niente, e si farebbe una risata.

Si. Per non piange. PIENA. Ancora. Ah, dimenticavo. Ildrammaèsempredietrol’angolo. Sempre.

Otto anni.

Il tempo ha un valore inestimabile. Soprattutto quando sei assolutamente cosciente del suo scorrere. Lo senti che passa, ti scivola dalle mani e non torna più. Questi giorni per me sono sempre di riflessione, perché era il primo maggio quando mi sono trasferito a Roma. Il primo maggio di ben otto anni fa. E’ inevitabile, allora non riflettere su tutto questo tempo passato.

In principio Roma era sinonimo di felicità. Nel vero senso del termine. Solo cose belle, come si direbbe oggi tramite ashtag. Ci venivo spesso, per andare a ballare “la musica pop” o per frequentare i luoghi gay che, vivendo in Abruzzo potevo solo immaginare. Era tutto nuovo, irriverente e soprattutto mi avvicinavo a quel mondo con curiosità. Mi sorridevano gli occhi.

Ogni volta che tornavo a casa da Roma mi madre me lo diceva appena rimettevo piede in casa. “Ti sorridono gli occhi. Devi divertirti davvero quando vai a Roma”. Si, mi divertivo. Tanto. Naturalmente le cose cambiano quando poi ti ci trasferisci in un posto. Interviene la routine. Intervengono le delusioni. Interviene quel senso di apatia che davvero non ti aspetti da una città come Roma. Dove per me tutto ha un significato.

Ho sempre associato ogni persona ad un luogo. La mia prima casa in Via Ostiense, Piazza di Pietra, il Pantheon. Simboli, ricordi. Il mio lavoro. Il master. Ogni cosa che ho fatto me la sono goduta, vissuta con entusiasmo. Tutto. Ho raggiunto quasi tutti i miei obiettivi. Altri ancora ne devo raggiungere, ovviamente. Ma poi sono arrivato ad un punto che mi sono spento. Blackout.

Non mi sono rasato i capelli. Non ho avuto un breakdown esagerato. Non ancora. Ho solo capito e realizzato quello che volevo e come doveva essere. Applicare questa mia consapevolezza però alla realtà non è mai stato semplice. E se ha trent’anni si raggiunge una maturità, ti aspetti anche una sorta di concretezza da chi ti circonda, oltre che da te stesso. Ecco, questo non c’è stato. Non c’è stato nell’amore, così come nell’amicizia.

O almeno non come avrei voluto. Così, il primo maggio di otto anni dopo, mentre passeggiavo solo perché tutti avevano ben altro di meglio da fare, mi sono reso conto di quanto sia difficile dover ammettere di aver in qualche modo fallito. Di aver più ricordi tristi che ricordi felici. Di aver dato forse troppo a chi non lo ha mai meritato e dato troppo poco invece a chi meritava di più.

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Addirittura volevo cancellare tutto il blog ieri sera, preso da un raptus di nervi. Si perché chi legge, e sono sempre pochi ma buoni, si fanno un’idea alle volte troppo scontata di me. E questo ha iniziato ad infastidirmi. Ho pensato pure che il problema sia tutto mio, che sia chiaro. Forse sto diventando quello che ho sempre odiato. Un acido omosessuale sopra i trenta, che odia tutto e tutti in generale.

Poi però mi sono dovuto rendere conto anche di tutte le cose positive che ho. Perché se è scontato lamentarsi, non è altrettanto scontato apprezzare ciò che si ha. Ho tirato la mia solita riga, e quello che dico sempre, ovvero di essere la persona sbagliata al momento sbagliato, è si vero, ma è stato anche un bene per certi versi. Adesso so esattamente, in maniera molto chiara quello che mi serve per stare bene. L’ho visualizzato.

E l’ho capito nel momento in cui mi sono trovato a pensare all’anno scorso. Un anno difficile. Un anno triste. Un anno in cui ci ho rimesso tutto, senza avere niente in cambio. In cui ho capito quanto sia facile farsi del male, e di quanto invece sia difficile stare bene. Per questo il blog è ancora qui. Per questo oggi scrivo di come sia cambiato qualcosa, ancora una volta.

Lo devo a mia madre, che ieri per telefono ha tentato di nuovo di farmi fare coming out. Che mi ha sentito triste, e mi ha rassicurato ancora una volta. “Pensa a te. Fai quello che vuoi. Per me e tuo padre va bene tutto“. Ed è forse questo il momento di ritrovare la tranquillità di cui ho bisogno per essere me stesso al cento per cento. Non è facile, ne sono già pienamente cosciente. Ma adesso, voglio provarci. Davvero.

E poi levatevi, che ne ho ancora di ben donde da fare.

La foto dell’header è di Sam Cristoforetti.

Un post mai pubblicato.

24 aprile 2014

“E’ venuto a prendermi una decina di minuti prima delle 21. La serata ha tutta l’aria di un primo appuntamento. Io sono eccitato. Per la prima volta nella mia vita sono felice. Mi sorride il volto. Gli occhi. Una cosa, che prima di oggi, è successa solo il giorno della mia laurea. Pensa te. Lui è tutto. E’ simpatico, fa battute, sorride. Parliamo di ogni cosa. La cena va veloce, tra chiacchiere e vino. Io sono contentissimo.

Di tanto in tanto mentre mangiamo mi accordo che mi guarda. Io ho davvero l’impressione che nel mio stomaco ci siano le farfalle. Sembra il blog di una quindicenne. Ma non sono mai stato così lucido nel descrivere ciò che provo. Mi sento strano. Per la prima volta ho l’impressione che finalmente qualcuno sia qui per me. Quello che ho sempre cercato, finalmente è qui. Davanti a me. E inaspettatamente mi stringe anche la mano.

Tra l’altro, le sue mani sono bellissime. Grandi, con le dita lunghe. Ma è tutto rapportato. Tra l’altro si è tagliato anche le unghie, perché qualche giorno fa gli ho detto che le aveva troppo lunghe per i miei gusti. D’un tratto mi viene da pensare che forse sono messo già male. Che alla fine ci sentiamo da due settimane, tutti i giorni, ed io sono già messo così. Poi però un vago pensiero mi si insinua nella testa. Lui non è roba tua. Lui è fidanzato. Non ti devi innamorare.

Usciamo dopo un oretta e mezza dal locale. Saliamo in macchina e mi bacia. Appassionatamente. Io ho già gli svarioni, e mentre gli dico la strada per tornare a casa mia mi tiene la mano. Le mie sinapsi, impazziscono subito. Arrivati nella via di casa lui va dritto senza indugiare, ma non ho neanche il tempo di chiedergli se vuole scendere. No. Parcheggia direttamente nel vialetto.

Io inizio a sentirmi in colpa. Questo pensiero mi ha colto per diverse volte durante la serata. Per qualche secondo. E poi è sparito. Ma si, un po’ mi sono vergognato. Insomma quello che mi sono ripromesso di non fare mai, e che ho già subito in passato adesso lo stavo facendo a qualcun’altro. Che non conoscevo e che sicuramente non se lo merita. Ma ero in balia della situazione. E di quella persona, che col suo calore mi stava riscaldando il cuore. Come mai nessuno in passato.

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Salgo in casa e prendo due birre, le sue preferite. Ci sediamo e accendo la tv. Decidiamo di guardare un film. Metto Sex And The City 2. Manco fosse un caso. Ci accocoliamo sul letto e ci stringiamo. Guardiamo 5 minuti di film, ma i nostri corpi non reggono. Siamo talmente vicini che non ha alcun senso continuare a guardare il film. Lui è talmente eccitato che provo un leggero imbarazzo. Lo sento e non mi va affatto di resistere. Non lo faccio. E non lo fa neanche lui.

Facciamo l’amore. Nel momento in cui lo stavamo facendo ho capito che era diverso dal solito sesso. Ogni suo gesto, ogni suo sguardo o movimento era fatto con cura. Ed è stato tutto perfetto. Non c’è stata una nota stonata in niente. Due corpi che si sono incastrati perfettamente. Senza ostacoli. Un’armonia quasi incredibile. E quando è finito tutto io avrei ricominciato ancora. All’infinito. Ma il tempo è tiranno, è arcinoto.

E lui, purtroppo, doveva tornarsene a casa. Abbiamo avuto il tempo di una doccia, con le stesse attenzioni di cui sopra. Qualche altro bacio e poi di corsa verso casa. Ho atteso il suo messaggio per sapere che era tornato dal suo fidanzato. E mi sono addormentato, per la prima volta, senza ansie nè angosce. Ero solo felice. Una felicità che ha preso ogni cm del mio cuore. Nel momento in cui ho realizzato tutta questa mia felicità, però, lo spettro del suo fidanzato, che uno spettro non è, anzi, mi ha fatto ricordare di non dover correre troppo.

Per oggi basta così. Un passo alla volta, senza pretese. Notte blog.”

 L’avresti mai detto che sarebbe finita così? Io no.

Con la testa fra le nuvole.

nuvole

Nell’ultimo periodo ho volato tantissimo. Ergo tanto tempo per pensare. Forse troppo. Ecco, non mi voglio affatto dilungare con risvolti depressivo-maniacali-convulsivi su chi ha deciso di girarmi le spalle. In fondo non se lo merita neanche più. In realtà quando avevo deciso di chiudere il blog, lo avevo deciso per davvero. Non volevo più tornare su queste pagine a scrivere. Più che altro perché scrivere vuol dire rivivere di nuovo una determinata situazione e quindi soffrire. Ancora. E ancora.

Detto ciò, ero lì che me la volavo e affidavo me stesso solo allo scheduling dettagliato degli aerei che avrei dovuto prendere nelle successive ventiquattro ore, e nient’altro. Non avevo altra certezza. Dovevo solo portare il mio culo in Australia, con un viaggio che partiva da Roma e faceva prima tappa a Londra. Per un notte, per riposarmi, per ripartire l’indomani.  Arrivo a Londra in una serata freddissima, e prendo direttamente un autobus che mi lascia in albergo a cinque minuti da Heathrow.

Arrivato in camera avevo solo una gran fame. Non mi sono preoccupato della valigia, l’ho lasciata li in mezzo alla stanza, e me ne sono andato nella lobby dell’albergo per mangiare qualcosa. Un albergo a cinque stelle costatomi pochissimo con un ristorante di merda. Niente di invitante, la cosa più interessante è stata la mia scelta finale, ovvero un sandwich orrendo. Di li a poco però mi sarei fatto catturare dal solito specchietto delle allodole per i gay. Grindr.

Si perché mi sono accorto di essere già sotto wi-fi, e ci ho messo tre secondi ad accendere la maledetta app. Ho fatto anche subito a chiuderla però, non mi andava niente. Ero solo con me stesso una sera a Londra, e volevo starmene tranquillo. In realtà nella sala di fronte a me c’era un party. Ed io, ho deciso di andare a dare un’occhiata. Non so dov’ero finito. Probabilmente una di quelle feste aziendali di Natale. Sarebbe stato Natale di lì a poco, ma io non ne sentivo proprio lo spirito.

La caciara era tanta, la musica un pop abbordabile e mainstream e la maggior parte dei presenti erano usciti da un film di Bollywood. Tutti ubriachi naturalmente. Ed ovviamente nessuno di vagamente interessante. Ho sorriso ai presenti e me ne sono tornato in stanza. Mentre ero lì che cercavo di attaccare il telefono a caricare nella spina del bagno per il rasoio (l’unica in stanza non inglese), mi sono fatto una doccia e mi sono rilassato un po’. Mentre mi lavavo i denti l’occhio mi cade sullo schermo del telefono e vedo che qualcuno mi ha scritto.

E’ un altro ospite dell’albergo. Mi dice che è un pilota della British Airways ed è lì per la notte. E’ turco. Gli scrivo che non lo so. Non mi va di fare sesso. Non faccio sesso da quando lui se n’è andato. E doverlo fare con qualcun’altro mi rattrista. Mi sento ancora legato. Decido che forse la devo piantare di fare Rossella. E che domani è si un altro giorno. Ma sicuramente un giorno senza di lui. Sono lì, che mi guardo allo specchio ed invito il pilota in stanza.

“Stanza n. 1014 tra un quarto d’ora” gli scrivo. Lui è puntuale e dopo quindici minuti lo sento bussare alla porta. Lo faccio accomodare e parliamo un po’ di noi. Mi dice che è stanco, ha volato per tutto il giorno. Vuole rilassarsi. Io gli racconto del lungo viaggio che mi attende, e di quanto abbia bisogno di tranquillità, poiché l’ultimo periodo è stato abbastanza devastante. Durante la conversazione, passa a raccontarmi di Dubai ed inizia a massaggiare i piedi.

Di li a poco, ci ritroviamo abbracciati, e ci baciamo. E poco dopo ancora scopro che ciò che si dice sui turchi è vero. In realtà però i nostri corpi si avvicinano soltanto. Ma nulla di più. Lui mi dice che mi vede teso. Lo sono. Molto. Non so se andare oltre, mi dispiace perché lui è davvero un gran figo. Un fisico tonico, delle enormi spalle e muscoli pronunciati che non deludono affatto. E’ carino. Mi guarda e mi bacia ancora.

Io sorrido, quasi mi imbarazzo. “Can I take care of you?” mi chiede sorridendo. Io annuisco. Mi allungo sulla pancia ed inizia a massaggiarmi dal collo. Mano a mano scende giù, fino al sacro. E poi ancora più giù. Poi comincia a massaggiarmi con la lingua. Ovunque. C’è stato un secondo in cui ho pensato di fare di più. Ma il secondo successivo me ne ero già pentito. Come una pazza squilibrata mi è scesa una lacrima che ha rigato il volto. La testa era ancora fra le nuvole, e pensavo a tutt’altro.

In realtà lui, neanche mi avesse letto nel pensiero, si interrompe e guarda l’orologio. Si sono fatte le tre, ed io non me ne sono minimamente reso conto. Mi dice che è tardi, che l’indomani dovrà volare da Londra a Dubai e che ha riposato poco durante il giorno. Io annuisco, sorrido e mi rivesto, in fondo se avesse voluto fare altro lo avrebbe fatto già da un bel po’.

Mi faccio un’altra doccia e mi metto finalmente a dormire. Non voglio trovare un altro motivo per deprimermi. In fondo non volevo fare niente dal principio, e deciderlo, mi ha reso sicuramente un po’ più sicuro di me stesso. Anche se sinceramente non ho mai pensato che rifiutare del sesso sia indice di sicurezza. Anzi. Mi faccio rapire dalla morbidezza delle lenzuola e rifletto su quanto si difficile fare determinate cose. Chiudo gli occhi, cosciente di essere ancora un po’ triste. Ma passerà. Lo spero, almeno.

Ultimo.

A volte arriva il momento di chiudere. A volte non basta sforzarsi per fare in modo che le cose funzionino. A volte bisogna rendersi conto che non c’è davvero più niente da fare. Che non si può avere più niente. Bisogna solo accontentarsi di quello che è stato e nulla di più. Perché ad essere sinceri e a dire le cose come stanno ci si rimette sempre. Anche quando l’altra persona ti dice che non è così.

Ma poi tutto grida il contrario. E così devo passare alla censura, a dire a me stesso che determinate cose non le posso neanche scrivere perché il suo unico problema è stare attento a non ferire il suo fidanzato. Che ha già ferito lui. Ma inevitabilmente la colpa è tutta mia. E così se stai al suo gioco va tutto bene. Se non dici le cose come stanno siamo i migliori amici. Se poco poco hai la necessità di dirgli che ti manca.

Che vorresti vederlo. Che quello che è stato ha avuto tutto un significa diverso per te. Allora no. Sei il cattivo. Ma lui fa di tutto per dimostrarti che non gliene frega niente. Non muove un dito. Anzi. Allunga le distanze. Alza i muri. Ed io che sono notoriamente instabile inizio a stare male. Mi manca l’aria. Ma lui non lo capisce. Si sente solo di dirmi che per me è diventato un ossessione. Che gli rompo le palle. Che la devo smettere. Che se voglio posso fargliela pagare. Che non devo fare la vittima.

samantha

Ecco. Altra nota dolente. Più che una vittima sono un coglione. Uno che non riesce neanche a fargliela pagare. Come se mi ci fossi messo da solo in questa situazione. Come se non avesse fatto niente lui. E quindi arrivo alla conclusione. La chiudo qui. La delusione è troppa. Non mi va di parlare. Stacco la spina e per il momento anche il blog. Tanto lo avrei fatto lo stesso. A breve vado fuori. Dall’altra parte del mondo per l’esattezza.

Spero solo di dimenticare tutto. Tutto questo dolore, che proprio non mi si addice per niente. Le persone non cambiano per i propri partner, figuriamoci se doveva cambiare qualcosa per me. L’ennesimo errore. L’ennesimo fallimento. L’ennesima situazione in cui devo sparire per leccarmi le ferite. Inflitti una appresso all’altra come coltellate. Questa volta è più dura. Questa volta io speravo davvero. E quando si annienta la speranza c’è ben poco altro da fare. Bisogna solo capire. Nonostante il cuore voglia altro.

L’unica cosa positiva per tutti voi, e che per un po’ vi siete tolti dalle palle il sottoscritto. Contenti voi. Contento tu, soprattutto.

Au revoir.

Patrick Mulder ed una serata inaspettata – Part 2

N.d.A. – Nota di Annabelle. Con il nickname di Patrick Mulder si identifica un noto cantante italiano famoso in tutto il mondo. Conosciuto in una situazione particolare potete recuperare il nostro precedente incontro cliccando qui.

 adam

Marzo 2014

Era una serata fredda e, come tipica della capitale, molto umida. Un mercoledì come altri, in cui però io e le mie amiche avevamo deciso di abbuffarci come se non ci fosse un domani di schifezze di ogni genere e sparlare dei soliti ragazzi carini che ci fanno tanto imbestialire. Eravamo partiti per cenare all’Hamburgeseria, ma era tipo pieno da far paura per cui ci siamo ripiegati su un più banale Mc Donald’s, che comunque da le sue soddisfazioni.

Cena, kg di schifezze ed i soliti discorsivi noi single alle prese con questi ghey un po’ troppo insolenti che ogni giorni incontriamo. Ecco le schifezze servivano proprio a sedare tutti quei sentimenti catastrofici che loro sono in grado di scatenare. Dopo aver ridefinito per l’ennesima volta che le nostre vite sono orribili, e piene di insoddisfazioni, alle 22 circa eravamo già verso la via di casa, perché noi oltre a dover saper gestire una vita da single, dobbiamo portare anche la pagnotta a casa che vuol dire sveglia all’alba. E così, mentre camminavo per Piazza della Repubblica alla ricerca compulsiva di un autobus squilla il telefono.

Numero sconosciuto. “Pronto?” dico distratto con l’aria di quello che è stato appena disturbato. In fondo sono le dieci di sera, chi cazzarola mi chiama a quest’ora? “Hey, sono Patrick Mulder” dice una voce dall’altro lato. “Si, ed io sono Raffaella Carrà!”. E click. Chiudo la conversazione. Passano tre secondi e realizzo immediatamente. MERDACHENONSONOALTROHOAPPENARICHIUSOILTELEFONO A Patrick Mulder. Sono un idiota. E adesso come faccio? Non ho il suo numero e non mi richiamerà mai. Dramma.

Mentre penso a quale sia il modo più utile per mettere fine alla mia vita senza senso, il telefono squilla di nuovo. Numero sconosciuto. “Pronto!” dico attento, questa volta. “Ma che me stai a prende in giro? Io te chiamo e me butti giù?” dice Patrick evidentemente pieno. “Scusa, ma anche tu, secondo te io penso che tu sia il vero Patrick?!?” mi giustifico. “Bè, so Patrick. Che ti devo dire che sono Francesco?” dice adirato. “Si, lo so, hai ragione. Scusami…” Chegranfiguradimerda penso. “Senti a do stai? Io sto in giro magari ci beviamo qualcosa?” proprone. E che gli vuoi dire di no? “Guarda sono a Piazza della Repubblica, dimmi dove ci vogliamo vedere!” lo azzittisco! “Damme cinque minuti e sto lì. Ciao”. OHMIODDIO.

Sono entusiasta a tal punto che non so se pisciarmi sotto dall’emozione o cagarmi addosso per tutto quello che ho mangiato da Mac. Ma non ho il tempo di pensare ad altro che eccolo arrivare. Bello come il sole, addirittura scende e mi apre la portiera. Giriamo la piazza ed entriamo nel Boscolo Hotel di Piazza della Repubblica. Io basito. Alla reception lo riconoscono subito, e a me da una ventiquattrore e mi dice di assecondarlo. Figurati, sono il tuo schiavo. “Salve, avremmo bisogno della solita stanza, lui è un mio collaboratore, dobbiamo sbrigare delle faccende. Pago subito, perché non restiamo fino a domattina.” Io ancora più basito. “Certo” fa il concierge,  “sono 1570. Ecco il lettore” per strisciare la carta. Minchia.

Finite le operazioni di pagamento saliamo in ascensore. Ho la faccia che mi scotta per la vergogna. “Scusami. Ovviamente io non posso contribuire alla spese della stanza. Insomma, guadagno quasi la stessa cifra, e non potrei proprio permetterlo…” dico abbassando sempre di più lo sguardo pervaso da una vergogna che mai nella mia vita. “Ma stai scherzando, non devi minimamente preoccuparti. Anzi pensa a divertirti!” e mi lecca un orecchio. Ok. Mi pare giusto. Entriamo in quello che è in realtà un mini appartamento, corredato di ogni tipo di confort. Ogni. Incredibile ma vero. Addirittura una jacuzzi pazzesca. Patrick ha fame ed ordina subito panini e champagne. E fragole. Io nel minibar mi approprio subito della panna spray.

Insomma dobbiamo divertirci. Finiamo subito sotto la doccia, insieme. Ci baciamo. Lui però è stranamente accelerato, ho il sensore che sia strafatto di cocaina all’inverosimile. Anche se davanti a me non ha mai menzionato una cosa del genere. Di li ci spostiamo nella jacuzzi ed iniziamo a giocare con la fragole e la panna. Si nella jacuzzi. E poi ci raggiunge anche il nostro nuovo amico Champagne. E, come dire. Arrideverci a tutti. Iniziamo una straripante seduta di sesso interminabile. In tutti i pertugi. Lui, anzi, il suo enorme cazzo è insaziabile. Io sono in paradiso. E credetemi, il clou è stato farne di ben donde davanti le finestre che danno su Piazza della Repubblica. Uno spettacolo.

Alle tre io sono distrutto ed ubriaco. Anche Patrick, mica fischia. Ci siamo rifatti una doccia. E devo ammettere che Patrick oltre a saperci fare a letto bacia davvero alla grandissima. Ci facciamo una limonata devastante e ci rivestiamo. Lo accompagno a riprendere la macchina e sorridendo mi lascia lì, davanti l’albergo. Purtroppo deve scappare, ha un appuntamento al casello dell’autostrada, Ed io che pensavo di avere una vita piena. Mi dice anche che appena potrà ci rivedremo ancora, ed io ci spero. Rimango come un idiota però, per strada, col freddo di marzo che mi arriva alle ossa e la soddisfazione di aver segnato, finalmente 1000 punti. Me ne torno a casa con la convinzione che nessuno potrà mai credermi.

Einvece, improvvisamente, ricordo di essere Annabelle Bronstein, theoneandonly. Ed ecco. Levatevi!

Patrick Mulder, ed una serata inaspettata – Part 1

Era una notte buia e tempestosa. No. Era un sabato sera pieno di noiah e senza un cazzo da fare, di circa un anno fa. Giacevo nel mio letto mentre anestetizzavo le mie membra con la vuotezza della tv italiana. E a tratti la vuotezza di Grindr. Annoiato e senza valide alternative il programma della serata era quello di rimanere in casa. E’ già pensavo, al lunedì, quando nel tragitto casa-lavoro mi sarei detto quanto sarebbe stato rigenerante uscire nel week-end. Einvece, verso l’una di notte, un trillo mi ha destato dal nulla cosmico.

“Ciao. Siamo in tre. Stiamo organizzando un’orgia in centro. A Barberini. Ti va di raggiungerci. Dovremmo essere anche qualcuno in più”. TROMBOLA. Rispondo interessato. D’altronde era un chiaro e diretto invito a farne di bendonde. No? Dopo aver visto le foto dei partecipanti ho avuto due tipi di reazioni. 1 Un mega durello devastante. 2 Questi sono pazzi (o èdavverounagranbottadiculo). Uno più Bono dell’altro. Alti. Muscolosi. Ben dotati, e maiali al punto giusto. Insomma ci ho messo un nano secondo a confermare la mia partecipazione.

Un’ora dopo, arrivo fresco e profumato a piazza Barberini. Incredibile come sia strano partecipare ad eventi simili in pieno centro. Suono all’appartamento numero 3, e raggiungo il terzo piano. Mi apre una domestica filippina. “Avanti avanti” dice sussurrando. BASITO. Mi accomodo su una poltrona in un disimpegno finemente arredato. Poco dopo arriva una checca, pelata, bassa. Dall’aspetto minaccioso ed acido al punto giusto. “Ciao, puoi dirmi come ti chiami?”. “Marco” dico d’impeto. “Ok. Marco puoi accomodarti. Dillà cè un tavolo con qualcosa da mangiare e da bere.”

Il paradiso. Il mondo dei balocchi. Soldi. Il profumo inequivocabile della ricchezza. Davanti agli occhi. Un’altro domestico, sempre filippino, sistemava tramezzini, cornetti salati e quant’altro, e avvicinandomi mi ha subito chiesto cosa gradivo da bere. “Prosecco. Un calice di prosecco.” dico sicuro. La scelta era tra vino, champagne e anche soft drinks. Nella stanza un letto enorme, circolare, con le lenzuola bianche ed una chez long anch’essa bianca. Inaspettatamente i Super Boni della chattata. Più un quarto. Meno Bono, ma comunque scopabile.

Ci presentiamo e facciamo quattro chiacchiere vaghe. Loro sono già in mutande, io no. Io sono lì che bevo e faccio fuori il buffet. Veniamo interrotti dal pelato di prima. “Allora: prima di tutto vi prego di consegnarmi i vostri telefoni cellulari. Vanno spenti e riposti su questo vassoio sul tavolo. Se ne avete più di uno anche quello lo dovete lasciare. Vi prego a questo punto di non raccontare a nessuno quello che accadrà stasera qui, e soprattutto vi auguro buon divertimento“, dice solenne. Ma che davero? Penso tra me e me.

Gli altri fanno esattamente quello che lui ha comandato. Io faccio lo gnorri. Avevo messo il silenzioso, e non temevo alcun che. E poi perché dovuto dargli mai il mio telefono? “Hey tu con la maglietta di Topolino” dice guardandomi. Si avevo una maglietta a maniche corto di Mickey Mouse. Ma nella versione di Andy Wharol. Che fa sempre più cool. “Tu non lo consegni il tuo telefono..?” mi chiede acidissimo. “Si, anche se non capisco il perchè… Però vabbè, eccolo!” lo spengo e glielo consegno, prima che decida di buttarmi fuori. “E mi raccomando, tra poco niente domande” dice uscendo dalla stanza.

Bene. Finalmente se ne va. I tizi muscolosi iniziano subito a toccarsi e a darci giù di limoni. Io decido di terminare il mio prosecco, e mi avvicino alla finestra. Enorme, che da su piazza Barberini, e un po’ mi emoziono pure davanti alla piazza. Ma lo spettacolo, non era ancora cominciato. Mi giro, mando giù l’ultimo sorso e poggio il bicchiere vuoto sul tavolo. Addento un cornetto salato con salame ed insalata e il mio sguardo cade su una persona, che entra e fa per raggiungerci. E nel giro di tre secondi netti mi sento morire. Dentro.

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Davanti ai miei occhi c’è una delle più grandi star internazionali che l’Italia abbia mai avuto. Un cantante famosissimo. Che per ovvi motivo d’ora in poi verrà identificato con il nome di Patrick Murder. Evito le descrizioni. Vi dico solo che è uno dei miei sogni erotici da sempre. Ed ora torniamo a me. Con un cornetto salato in bocca e un’altro bicchieri di prosecco fra le mani. “A Michi Maus, te stai a rifocillà?!?” esordisce sorridendo. IO BASITO. “Ehm… Be ecco, si… Sai per scaldare un po’ la situazione…” rispondo profondamente imbarazzato. Ricordarsi in futuro di non indossare più la t-shirt di Mickey Mouse. In nessuna occasione che non sia in casa. Nessuno capisce che è di Andy Wharol.

Sorrido incredulo per quanto mi è possibile, mentre anche lui prende da bere. “Come ti chiami..?” mi chiede. Mentre sul letto circolare i quattro ne facevano già di ogni, noi eravamo lì che ce la chiacchieravamo. “Annabelle Bronstein… Piacere. Una volta mi sono imbucato a un tuo concerto lo sai?” dico entusiasta. “Come te sei imbucato? E come hai fatto?”. “Be, ecco la mia amica si faceva uno della sicurezza ed ecco… Siamo entrati!” sorrido felice. “Ammazza pure in due ve siete imbucati. Che cotiche!”. Bene. Una perla appresso all’altra proprio.

Decido di cambiare discorso mentre lui mi poggia una mano sul culo. “Devo dedurre che la storia che ho sentito a proposito di te ed un noto attore italiano, quindi, sia tutta vera?”. “Non parlo della mia vita privata, mi spiace!”. E mi fulmina con gli occhi. Mentre con la mano fa cose che non vi racconto. Ho la vaga sensazione che devo essere più vago. Insomma. Sto facendo la pettegola impicciona. Decido di passare all’azione, e lo azzittisco con un limone supersonico. Detto fatto. Di li a poco raggiungiamo gli altri. E be. Vi lascio vagamente immaginare.

Evito i dettagli. Quelli li conoscete tutti. Se che lui è un gran maialone. E non solo. Anche dolcissimo. Si è dedicato un bel po’ a me, per poi, cedere al richiamo dei muscoli. Ma ci sta. D’altronde era stato studiato tutto. Tra l’incredulità della situazione e l’alcool, mi sembrava che quello che stava accadendo davanti i miei occhi era solo frutto della mia immaginazione. Einvece. Non era affatto così. Dopo circa tre ore, la situazione iniziava a scemare, e Patrick, ha invitato me ed uno dei manzi ad andare con lui a fare una doccia. Ho adorato.

Dopo un’altra oretta, con il giorno dietro l’angolo, abbiamo raggiunto gli altri sul letto ma Patrick ci stava salutando. “A regà so stato benissimo. Voi restate ancora fino a quanto volete. Stanno arrivando cornetti per tutti. Divertitevi, e se ricapito ce risentimo. Ok?” chiude, e si allontana verso il corridoio. Ci siamo guardati tutti negli occhi, ancora increduli. Ancora un po’ storditi dalla situazione. I filippini hanno portato cornetti caldi e cappuccini per tutti, e fuori Roma si stava svegliando.

Mi rivesto e raggiungo l’uscita per recuperare il telefono. “Maglietta di Mickey Mouse, mi lasceresti il tuo numero di telefono?” mi chiede la pelata acida di prima. “Certo.”. Lascio il mio numero, recupero il telefono e me ne torno dritto a casa. Con in tasca la speranza di rivederlo, e con una delle serate più fighe che mai avrei creduto di vivere. Che solo a Roma, qualche volta, possono davvero accadere.

Deriva. E ritorno.

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Non ho mai detto a nessuno perché ho aperto questo blog. Nessuno. Neanche alle persone che mi sono più vicine. Tutto era nato per sdrammatizzare ed ironizzare sulle disavventure che spesso mi trovavo a vivere. E per un qualcosa di più personale, che mi ha spinto una mattina ad alzarmi ed iniziare a scrivere. Di quella motivazione, però, negli ultimi tempi me ne sono assolutamente dimenticato. Sarà stato il periodo difficile, la delusione e tutte gli stress che si sono accumulati insieme, ma tutto quello che avevo in testa era per una sola ed unica persona. L’unica che forse davvero a cui di me non frega niente. Ed è un fatto evidente ai più. Ma non a me. O per lo meno fino a quando non lo realizzato.

Ecco adesso aprire un pippone su questo mi sembra assolutamente inutile. Visto che di pipponi ultimamente ne ho fatti solo in via del tutto metaforica. In realtà quello che vorrei aprire è una chiara e semplice riflessione su cosa sono diventato. Primo fra tutti, sono diventato antipatico a me stesso. Una cosa poco gestibile, visto che se inizio ad avere problemi anche con me stesso, non credo di poter avere un futuro di coppia. Anzi. Inizialmente ero solo sfastidiato da me stesso. Poi il fastidio ha lasciato spazio all’odio. Ho odiato profondamente me stesso. Mi sono murato vivo. E inzerbinato all’infinito. Una situazione spinosa e di zero equilibri.

Io purtroppo resisto poco, e non sono affatto capace di distogliere l’attenzione quando qualcuno mi piace davvero. Anche se ci ho provato, e be, ecco, sono stati degli esperimenti fallimentari e per niente gratificanti. E trovavo sempre il modo per ritornare a chi invece doveva prendersi un bel calcio in culo. Ho provato, però: per la prima volta ho ho mandato un DM su twitter. Non lo avevo mai fatto prima perché ho sempre pensato che farlo voleva dire rompere una regola fondamentale che mi ero imposto, ovvero non trasformare il mio account in una succursale di grindr. Ho rotto il patto, con me stesso perché ero stanco di stare a letto a piangere per uno fidanzato. Che mi chiedeva di tornare con un messaggio tutto maiuscolo per di più. Ma vabbè, ho preso il telefono in mano e gli ho scritto. Un tizio carino, visto a una serata, e che sinceramente mi è piaciuto subito. Ma non ero abbastanza ubriaco per provarci. Così, nei giorni successivi, ho intavolato una conversazione su twitter. Che si è conclusa come segue.

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Dopo risposte arrivate dopo ogni otto ore circa, gli ho sbottato. E lui mi ha chiesto pure “In che senso?”. Forse avrei dovuto dirgli che volevo ficcargli la lingua in bocca. Ma non l’ho fatto. E non ho neanche risposto. Mi sono preso la briga di non dare spiegazioni. Avrei voluto scrivergli più semplicemente, che lo trovavo interessante, e che mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Seriamente. Ma no. Ho avuto il terrore di farlo per paura di finire in un manicomio questa volta. E ho lasciato cadere la cosa così.  Ed è in quel momento che mi sono rivisto. Non mi rivedevo da un bel po’. Il tempo ultimamente si era dilatato, le giornate stentavano a passare, ed io le vivevo solo perché non potevo fare diversamente. Senza un briciolo di coscienza. Senza capire il perché e il come di quello che pensavo.

Ed ho pensato qualsiasi cosa, anche la più estrema. Ma non ero ancora ravveduto pienamente. No. Dovevo far passare anche una decina di giorni per capire che in realtà avevo perso totalmente di vista perché ero qui. Perché avevo deciso di scrivere. Era tutto iniziato nel 2008, quando ho creduto di aver incontrato la persona giusta. Invece è stato un breve passaggio, un bagliore, che si era solo avvicinato per sparire subito dopo. Volevo che lui potesse aver la possibilità di capire davvero chi ero, leggendomi. Di avere un quadro veritiero su chi ero io. Perché di me non aveva visto niente. Volevo che sapesse quanto volevo averlo vicino. Ci ha pensato twitter, in qualche modo, a far sì che lui leggesse. Ecco, adesso non mi saluta.

Non mi dispiace neanche granché. Il punto è che a lui non interesso. Lui era li, per giocare. Lo ha fatto ed è sparito. Una volta entrato in qhttp://www.tizianoferrofan.com/homepage/all-music-italia-annuncia-lalbum-di-tiziano-ferro-uscira-il-25-novembre-in-due-versioniuest’ottica, tutto il dolore, tutte le lacrime mi sembrano solo ed e soltanto una gran perdita di tempo. E forse è così. Ma come canta qualcuno, che ha molto più talento di me, “che ora sò, che il tempo non cancella niente“. Tutto resterà nella mia testa, e servirà per farmi riconoscere, finalmente, quello giusto. A tutti gli altri non dico niente, loro non lo sanno che si sono persi. Io, si. Ed è sufficiente. E mi spinge, inevitabilmente, a girare l’angolo e ad attendere quello giusto. Che tanto prima o poi il dramma finisce, si porta via tutto. E adesso si è portato via, te.

O almeno, ci spero vivamente.

Ringrazio Daniele per aver dato luce al nuovo header del blog. Thanks ❤